Gap gender e sport: luci ed ombre

A cura di Francesca Stecchi

Quando ho pensato di preparare un articolo sulla parità di genere nello sport, avevo tante idee e la mia mente ha iniziato a spaziare.

E mentre pensavo a come strutturare bene il discorso, camminavo per tutta la casa, avanti ed indietro. Finché il mio occhio si è soffermato, quasi per caso, su un libro che avevo riposto nel secondo ripiano in basso di un tavolino affianco al divano.

“Billie Jean King: Tutto in gioco – Un’autobiografia” 

E luce fu! 

Billie Jean King è considerata una delle migliori tenniste della storia, ma viene maggiormente ricordata per il suo impegno nelle battaglie civili che hanno rivoluzionato lo sport al femminile. Gran parte dei piccoli (grandi) passi avanti fatti in questi ultimi 50 anni li dobbiamo al suo coraggio. In breve: ha ottenuto che le tenniste avessero un montepremi pari a quello dei tennisti, tutt’oggi nei grandi slam i montepremi sono parificati.

Nel 1973 disputò una partita di tennis contro Bobby Riggs (ex tennista numero 1 al mondo), conosciuta come la “Battaglia dei sessi”. Bobby Riggs rappresentava il genere maschile di quei tempi, anche se al giorno d’oggi certi stereotipi purtroppo sono ancora presenti. In un’intervista prima della partita Bobby Riggs afferma che “il posto delle donne è a letto e in cucina, in quest’ordine”.

E ancora “Gli uomini hanno le famiglie da mantenere, sono più divertenti da guardare, sono più forti, più veloci, più competitivi, non è colpa vostra è biologia. In qualunque settore quelli che contano sono solo gli uomini”.  

A queste parole Billie Jean King risponde in campo con una bella vittoria schiacciante e scrive un capitolo di storia per l’uguaglianza di genere nello sport, segnando un grande traguardo per le donne.

Sempre nel 1973 Billie Jean King fonda la Women’s Tennis Association (WTAovvero la prima associazione che riunisce le giocatrici professioniste di tennis di tutto il mondo. 

Il tennis è l’unico sport dove, attualmente, il processo di parità di genere ha avuto realmente successo. Le atlete più pagate al mondo infatti sono tenniste. E se si considera il solo pubblico televisivo australiano, l’ultima finale femminile degli Australian Open ha avuto più telespettatori di quella maschile.

Per gli altri sport, purtroppo, ad oggi ancora tanto deve essere raggiunto. Le atlete donne vengono pagate meno degli atleti uomini praticamente in ogni sport, e non parliamo solo di retribuzioni dirette da club e federazioni ma anche di tutti contratti e premi degli sponsor a causa anche di una inferiore copertura mediatica. Basti pensare che nel calcio lo stipendio annuo di una giocatrice di serie A si aggira attorno ai 15mila euro, una abissale differenza se pensiamo agli stipendi dei calciatori.

Per non parlare delle atlete che vengono penalizzate anche sotto il punto di vista salariale quando restano incinte. Proprio ad inizio di quest’anno c’è stata una sentenza storica per l’intero movimento del calcio femminile europeo. Sara Bjork Gunnarsdottir, calciatrice della Juventus Women, ha vinto la causa contro il Lione per il mancato pagamento dell’intero stipendio durante la gravidanza. Questa vittoria crea un precedente molto importante per i diritti delle atlete. In Italia il calcio femminile è diventato professionistico a partire dalla stagione 2022/2023. 

Ma il mondo dello sport non è fatto solo di atlete. Parliamo di numeri per fare luce sulla situazione attuale: le donne rappresentano il 28% di tutti gli atletə tesserati nelle diverse Federazioni.

All’interno dei vari staff le allenatrici non arrivano al 20%, così come le dirigenti di società sportive e di Federazioni, le cui percentuali sono inferiori al 15% (dati rilevati dal CENSIS).

Il gender gap ai vertici è alquanto imbarazzante: su 44 federazioni sportive ci sono solo due donne che ricoprono una posizione dirigenziale: la prima storica presidentessa di una federazione sportiva nazionale (FIGS) è stata eletta nel 2021.

Questo significa che in 107 anni di storia vi sono stati 732 presidenti uomini delle varie federazioni sportive e 20 presidenti uomini del Coni.

Il numero di donne ai vertici, con effettivo potere decisionale, è dunque praticamente nullo.

La situazione non è differente a livello Europeo e a livello mondiale anche se diverse federazioni hanno introdotto le “quote di genere” che prevedono una partecipazione minima di donne nelle posizioni decisionali di vertice.

Il traguardo è ancora lontano, ma nulla è irraggiungibile. Dipende da noi. Bisogna avere il coraggio di uscire dall’ingabbiamento mentale che le concezioni socioculturali e l’educazione familiare ci ha cucito addosso. Dobbiamo trarre forza e non svantaggio da tutte quelle situazioni che inizialmente sembrano penalizzarci. Creare una nostra identità forte e consapevole senza stereotipi. Io per prima so quanto può essere difficile questo percorso.

Ho iniziato a fare sport fin da piccola, grazie a mio padre. Per molti anni mi son chiesta se avesse voluto un figlio maschio piuttosto che una femmina. In realtà lui voleva solo vedermi libera. A questo pensiero, però, ci sono arrivata molto tempo dopo. Ero intrappolata in una cultura dove se eri femmina e praticavi sport eri considerata un “maschiaccio”, parlo degli anni 70’ e 80’.

Ma io sono nata per fare sport e lo sport ha sempre fatto parte della mia vita. Mentalmente e fisicamente è sempre stato un richiamo, una propensione, un bisogno. A scuola durante l’ora di educazione fisica ero l’unica bambina che riusciva a battere tutti i maschi e ad eccellere, in ogni disciplina sportiva.

Quindi, molto presto, mi sono state cucite addosso varie etichette. Ma la cosa più terribile e dolorosa che ricordo è l’ingresso alle scuole medie: venivamo raggruppati tutti in un androne e c’erano due campane, dopo la prima campana entravano le femmine e dopo la seconda entravano i maschi. Io venivo fatta entrare dopo il suono della seconda campana. 

Inizialmente avevo tanta vergogna di parlare e fare un passo avanti, ma un giorno mi sono ribellata, ho preso coraggio e sono andata davanti al bidello e dopo il suono della prima campana ho iniziato a camminare assieme alle mie compagne, e quando mi ha fermato, ho detto ad alta voce “io sono femmina!”. Da quel momento ho sempre combattuto per far valere i miei diritti come persona.

I miei giochi preferiti non erano le bambole, ma le piste con le macchinine, la lotta, i palloni di ogni tipo, qualsiasi cosa con cui potevo giocare ed essere in competizione mi rendeva felice e mi faceva sentire me stessa. Sono nata competitiva. Non ho mai creduto che la competizione non appartenesse al mondo femminile e ben presto mi sono resa conto che tutto ciò che esce dagli schemi viene etichettato. 

Competitività, spirito combattivo, resilienza, forza, leadership, sicurezza in sé stessə sono tutte caratteristiche che comunemente vengono attribuite al genere maschile, ovviamente anche nello sport.

Quando dimostriamo di avere queste caratteristiche, non siamo considerate delle “vere donne”, perché nella ideologia comune di donna tutto ciò cozza con “femminilità” per cui da “maschiaccio” crescendo si passa ad un’altra etichetta, quella di “donna con le palle”. La sostanza non cambia, insomma. Quante volte ho sentito dire “che brava, fortissima, gioca come un uomo”. 

Mi viene ora in mente questa frase di Virginia Woolf  “dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”.

Nel momento in cui pensiamo che dobbiamo stare dietro, non faremo mai quel passo avanti. 

Concludendo, in un documento dell’EIGE (European Institute for Gender Equality) è riportato quanto è fondamentale insistere affinché le organizzazioni sportive prestino maggiore sensibilità all’equilibrio di genere nei consigli e nei comitati esecutivi, nonché nella gestione e negli staff tecnici.

Nel documento viene anche riportato che al ritmo attuale col quale si registrano i progressi, rimangono ancora non meno di 60 anni prima che venga raggiunta la completa uguaglianza di genere. 

Rimbocchiamoci le maniche, affinché un giorno si possa dire: “dietro ad ogni grande donna, non c’è un uomo, ma tanto coraggio e forza di volontà”.